In questo articolo risponderemo alle domande:
1. Cos’è il drug repurposing (o drug repositioning)?
2. Quali sono i vantaggi legati a questo approccio?
3. Come si arriva a identificare un nuovo ruolo per un vecchio farmaco/molecola?
4. Quali sono gli ostacoli che si possono presentare nel percorso?
“Il modo più fruttuoso per scoprire un nuovo farmaco è partire da un vecchio farmaco.” Le parole di James Black, farmacologo e premio Nobel per la fisiologia o la medicina 1988, sono senza dubbio incoraggianti per chi si occupa di ciò che in inglese si chiama oggi drug repurposing o drug repositioning e che in italiano si chiama riposizionamento di farmaci. In pratica ciò significa cercare e testare nuovi utilizzi per farmaci già approvati dalle autorità regolatorie (per l’Italia l’Agenzia europea delle medicine, o EMA, e l’Agenzia italiana del farmaco, o AIFA). Il riposizionamento può essere considerato anche per molecole non ancora in commercio, ma già utilizzate in studi clinici, ovvero le cosiddette “investigational drug”. Gli esempi di riposizionamento sono tanti e alcuni anche piuttosto famosi. Basti pensare al sildenafil, molto più noto come la “pillola blu” o con il suo nome commerciale, Viagra: nato in origine per trattare l’angina pectoris, è oggi utilizzato e conosciuto anche e soprattutto per trattare la disfunzione erettile. Altro caso è quello del minoxidil, usato in origine contro l’ipertensione ma oggi utilizzato anche contro la perdita dei capelli poiché, tra gli effetti collaterali, dà irsutismo, ovvero fa crescere i peli. In oncologia si è scoperta l’efficacia contro il mieloma multiplo della talidomide, usata in passato contro la nausea in gravidanza, ma ritirata dal mercato per i gravi danni di salute che causava ai feti e quindi ai bambini nati da madri che ne avevano fatto uso.
Un approccio sostenibile
Uno dei principali vantaggi del repurposing è il fatto che questo approccio permette di dare un taglio netto ai tempi necessari per portare un farmaco al letto del paziente. Come si legge in un articolo pubblicato su Signal Transduction and Targeted Therapy, una rivista del gruppo Nature, lo sviluppo di un nuovo farmaco richiede in media 13 anni. Con il repurposing, parametri importanti come la farmacocinetica, la farmacodinamica e il profilo di tossicità della nuova molecola sono già studiati, per cui è possibile saltare le fasi iniziali della ricerca e passare direttamente agli studi clinici sull’efficacia. Ecco allora che, dai 10-17 anni necessari per lo sviluppo di un nuovo farmaco, si scende a 3-9 anni in caso di riposizionamento. Ciò permette di ridurre fortemente i costi di sperimentazione e sviluppo. Sempre secondo l’articolo già citato in precedenza, negli Stati Uniti solo il 5 per cento dei farmaci oncologici che entrano negli studi di fase 1 viene poi approvato dalle autorità regolatorie (Food and Drug Administration, FDA).
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